Theory and History of Ontology (ontology.co)by Raul Corazzon | e-mail: rc@ontology.co

Giorgio Tonelli (1928-1978): Bibliografia degli Scritti su Kant e la Filosofia del Settecento

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Bibliografia dal 1987 al 1995

  1. Tonelli, Giorgio. 1987. "La disputa sul metodo matematico nella filosofia della prima metà del Settecento e la genesi dello scritto kantiano sull’ ‘evidenza’ " In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 81-107. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Der Streit über die mathematische Methode in der Philosophie in der ersten Hälfte des 18. Jahrhunderts und die Entstehung von Kants Schrift über die 'Deutlichkeit', in « Archiv für Philosophie », IX, 1959, pp. 37-66.

    "Nel presente articolo viene proposta un’indagine sulle premesse storiche e sullo spunto della dottrina kantiana sul metodo matematico del 1762. A questo scopo ci sembra necessario considerare brevemente la problematica del Seicento, con la speranza che il nostro tentativo di trattare in poche pagine un problema tanto vasto non appaia troppo arrischiato: un’indagine approfondita di tale questione importante richiederebbe uno spazio ben maggiore, ma qui ci limiteremo a richiamare ciò ch'è indispensabile per la comprensione della trattazione kantiana del problema. A tal fine ricorreremo anche alle opinioni di diversi filosofi di grandezza minore, che sotto questo riguardo solitamente vengono trascurati ma che tuttavia sono molto interessanti nell’insieme: e ciò per ricreare l'atmosfera in cui il problema è stato affrontato da Kant.

    L’applicabilità e la sufficienza del metodo matematico in filosofia divengono già nel Seicento una delle questioni più dibattute della filosofia europea. (1) Già all’inizio del secolo Morin aveva cercato di dimostrare con un procedimento di tipo matematico l’esistenza di Dio (2), ed è noto come Descartes abbia introdotto nella filosofia in generale il metodo matematico (3). Naturalmente questa impostazione incontrò una vivace opposizione da parte degli aristotelici. Come esponente caratteristico della reazione anticartesiana sotto questo aspetto può essere forse considerato J. B. Du Hamel, il quale sosteneva che i concetti della geometria avevano un mero carattere immaginario e che pertanto era sbagliato introdurli nella fisica (4). Il problema del carattere immaginario o reale dei concetti geometrici era naturalmente vivo fin dall’antichità. In Suarez, ad esempio, si trova un’ampia esposizione delle diverse opinioni scolastiche in proposito, le quali discutono la questione in maniera molto più approfondita c complessa di quanto non sia avvenuto in epoca posteriore (5). Anche nel Seicento venne sottolineata la differenza tra i concetti di estensione geometrica e fisica, ad esempio da Sennert e da Gassendi (6); Ledere richiamò pure con vigore la differenza tra matematica e filosofia (7).

    Il più importante fautore dell’introduzione nella metafisica del metodo e del modo d’esposizione euclideo è stato, com’è noto, Spinoza, in quanto prosecutore e innovatore della tradizione cartesiana. Nonostante il sospetto di ateismo che per tal motivo accompagnava il matematismo metafisico, il metodo matematico fu accolto proprio dagli avversari di Spinoza specialmente in Francia, dove fu impiegato per respingere le dottrine dell’ebreo olandese. Il primo della serie di questi avversari (1679) è stato Huet (8), seguito da Fénelon, Silléry, Lamy, Régis, Langehart, Bayle e Mairan (9)." (pp. 81-82)

    (...)

    "Già nel suo primo scritto sulle ‘forze vive’ Kant aveva sottoli-nèato la differenza tra il concetto fisico e quello matematico di corpo (138), una differenza che — ovviamente — non può essere considerata originale. Egli sosteneva che la sua metafisica avrebbe raggiunto la medesima evidenza e rigore dimostrativo della matematica. Nel’Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels [Storia naturale universale e teoria del cielo] e nella dissertazione De Igne Kant aveva impiegato la matematica nella filosofia della natura secondo il modello newtoniano. Lo stesso discorso va fatto per la posteriore Monadologia physica e per il saggio sul movimento e la quiete: si tratta di scritti di filosofia della natura, ma anche nella contemporanea Nova Dilucidatio di contenuto ontologico e metafisico Kant applica almeno esteriormente il metodo matematico (139).

    La situazione invece è diversa nell 'Einzig möglicher Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes [Unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio] del 1763, in cui Kant afferma essere attualmente impossibile servirsi del metodo matematico in filosofia: ciò provocherebbe solo una sorta di ‘mania del metodo’ suscettibile delle peggiori conseguenze. A suo avviso questa impossibilità dipende dal fatto che i concetti metafisici non sono stati ancora analizzati esaurientemente: non si sa perciò con precisione il loro contenuto e di conseguenza non si può procedere con essi col metodo matematico. La « certezza matematica » in metafisica è ciononostante pur sempre una meta ideale della metodologia kantiana: se un giorno si riuscirà ad analizzare compiutamente i concetti metafisici, cioè a renderli del tutto chiari e distinti, allora si potrà Cominciare finalmente a costruire la vera metafisica, ch’è capace di certezza matematica (140). Il contrasto col metodo wolffiano è ora chiaro: una metafisica secondo il modello matematico è da considerarsi al presente impossibile ed inutile.

    Tuttavia una chiarificazione metodologica fondamentale di questi problemi compare appena nello scritto Über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der Moral [Ricerca sull’evidenza dei primi principi della teologia naturale e della morale] del 1762. Kant è impegnato ad approfondire lo iato tra metafisica e matematica: i concetti matematici vengono definiti mediante una composizione arbitraria (sinteticamente); la definizione dei concetti metafisici può avvenire invece soltanto per via analitica, dal momento che qui si ha a che fare con enti reali, che bisogna assumere cosi come sono e considerare poi attraverso la risoluzione o analisi più accurata nei loro elementi semplici. Inoltre i segni matematici (simboli o figure) sono idonei a ridare l’essenza dei concetti matematici; in questi segni ci si può rappresentare in maniera sensibile tali concetti ed è dunque possibile procedere in matematica in concreto, vale a dire sensibilmente (mediante esempi chiari e dimostrazioni evidenti, accessibili e comprensibili a tutti).

    I segni o termini metafisici non sono invece idonei ad un simile trattamento, poiché non li si può risolvere nei loro elementi semplici: i segni metafisici non possono essere combinati secondo regole semplici e chiare, e dunque una combinatoria metafisica è impossibile. La metafisica può procedere solo in abstracto, cioè in maniera intellettuale.

    Ancora: la matematica è costruita sopra un numero determinato di concetti fondamentali: i concetti-base metafisici sono invece senza numero, e lo stesso vale per gli assiomi o principi indimostrabili. La matematica dunque è facile, semplice, comprensibile; la metafisica invece difficile e confusa. La metafisica deve allo stato presente limitarsi all’analisi dei concetti: solo quando questa analisi sarà giunta a compimento la metafisica potrà procedere per via sintetica, secondo il modello matematico (141).

    Kant non intendeva però dire con questo che la matematica per il momento è indifferente per la metafisica in generale. Di fatto egli impiega all’occasione concetti e dimostrazioni matematiche nello scritto cronologicamente contiguo sulle grandezze negative (142), e ciò non va considerato in contraddizione con le teorie dello scritto sull’evidenza. In realtà lo schema delle grandezze negative non è di tipo matematico: gli elementi matematici degli esempi e delle dimostrazioni occasionali costituiscono un’aggiunta esteriore.

    Le dottrine dello scritto sull’evidenza hanno certamente avuto la loro origine nelle prese di posizione dell’Accademia prussiana, tuttavia anche l’influsso di Crusius è stato sicuramente determinante: Kant cita esplicitamente di preferenza Crusius piuttosto che altri pensatori. La polemica contro la combinatoria è certamente affiorata già nella Nova Dilucidatio, tuttavia la tesi dell’infinità numerica dei principi metafisici fondamentali proviene da Tonnies e da Tetens (143).

    Kant dunque non ha rifiutato totalmente il metodo matematico in filosofia: vi si rinuncia per il momento, ma rimane pur sempre come obbiettivo per il futuro. La venerazione per Newton impedì verosimilmente il rigetto completo della matematica. Alla presa di posizione sul problema presente nell’Unico argomento e nello scritto sull’evidenza è probabile che Kant sia stato spinto unicamente perché i suoi due padrini sul piano filosofico, Crusius e Maupertuis, s’erano espressi positivamente al riguardo. Ciò può spiegare perché Kant solo relativamente tardi abbracciò questa tesi, cioè dopo che anche l’ambiente dell’Accademia berlinese s’era espresso in tal senso. La sua precedente considerazione per la matematica non può essere in alcun modo ricondotta ad un riguardo per Wolff, giacché la polemica nei suoi confronti fu in Kant fin dagli inizi ben decisa. Basta solo pensare a quale considerazione aveva acquistato un uso moderato del metodo matematico grazie ad uomini come Leibniz e Newton e si comprenderà facilmente perché Kant appena così tardi e con simili riserve si è distaccato dal metodo geometrico." (pp. 92-93)

    (138) Cfr. G. Tonelli, Elementi metodologici..., Cap. I, §§ 36-37, 41-43.

    (139) Ibid., Cap. IV, SS 1-2.

    (140) Ibid., Cap. V, A.

    (141) Ibid., Cap. VI, A.

    (142) Ibid., Cap. VI, B.

    (143) G. Tonelli, La tradizione delle categorie aristoteliche nella filosofia moderna sino a Kant, in «Studi Urbinati», Serie B, 1958.

  2. ———. 1987. "La concezione leibniziana delle idee innate e le prime reazioni alla pubblicazione dei Nouveaux Essais (1765)." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 111-136. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Leibniz on Innate Ideas and the Early Reactions to the Publication of the « Nouveaux Essais » (1765), in «Journal of the History of Philosophy », 1974, pp. 437-454.

    "I Nouveaux Essais di Leibniz, scritti nel periodo 1703-1705 (e d’ora in poi citati come NE), furono pubblicati postumi da Raspe (1) nel 1765, all'inizio di una rinascita di interesse per Leibniz di cui è segno anche la grande edizione Dutens del 1768. Poiché la grande svolta nel pensiero di Kant si produsse nel 1769, e fu contrassegnata in particolare dal rifiuto della sensibilità quale fonte unica della conoscenza (2), è facile concludere che proprio la lettura dei NE possa essere stata uno tra gli elementi determinanti che spinsero Kant ad adottare la sua nuova soluzione.

    Non è pretesa di questo studio rispondere a tale difficile questione: Il nostro tentativo è piuttosto quello di preparare il terreno per un’eventuale risposta al problema, muovendo dall’analisi delle prime reazioni che si ebbero nei circoli filosofici, in special modo tedeschi, alla comparsa dei NE. In che misura vennero afferrati l’importanza ed il significato delle particolari dottrine esposte nei NE? Fino a che punto i filosofi contemporanei si resero conto che esse avrebbero profondamente modificato il quadro complessivo dei principi della psicologia di Leibniz? E, per conseguenza, fino a che punto avrebbe potuto Kant venir spinto da una reazione generalizzata a prestare particolare attenzione alla peculiarità di quell’opera? Per rispondere a questi interrogativi, focalizzerò la mia ricerca sul problema della origine della conoscenza.

    Poiché il mio intento è quello di ricostruire un’atmosfera filosofica nel suo complesso, non limiterò la mia indagine alle reazioni filosofiche precedenti al 1769, ma prenderò in considerazione anche alcune posizioni del decennio successivo. Come frequentemente accade nella storia delle idee, mentre la forza d’urto di un certo evento può venir riconosciuta già nei momenti immediatamente successivi al suo accadimento, la documentazione dei suoi effetti nel tempo può rivelarsi accessibile solo dopo un certo periodo. Tali effetti sono da considerarsi nondimeno indicativi di quella forza d’urto che li ha preceduti.

    Prima però di dare inizio a quest’indagine, desidero chiarire due punti preliminari: intendo infatti, in primo luogo, mettere in luce le diverse modalità di trattamento della dottrina in questione nei NE e nelle opere di Leibniz pubblicate in precedenza in cui essa compare; passerò poi, in secondo luogo, ad esaminare le interpretazioni della psicologia di Leibniz precedenti al 1765, e, in particolar modo, la versione che di essa venne accolta da Wolff e incorporata nel suo sistema." (pp. 111-112)

    (...)

    "Se dunque un’eventuale lettura dei NE ha realmente inciso sulla rivoluzione filosofica di Kant del 1769, questo non è stato per effetto di una reazione positiva collettiva seguita alla comparsa dei NE, poiché per lungo tempo ancora dopo il 1769 questa reazione non ebbe, semplicemente, luogo. L’influsso dei NE su Kant può spiegarsi dunque soltanto in base a ragioni d’ordine personale, a differenza di molte altre posizioni filosofiche assunte da Kant tra il 1769 e il 1780. Esso può però, almeno parzialmente, spiegarsi anche grazie all’influenza esercitata da Crusius su Kant. Sebbene infatti Kant in principio non accettasse il moderato innatismo di Crusius, la conoscenza della teoria di Crusius può aver richiamato la sua attenzione sull’analoga dottrina di Leibniz, e l’influenza congiunta di entrambe le concezioni può aver costituito un importante elemento nella celebre svolta del 1769.

    Non credo che la forma ormai antiquata d’innatismo difesa da pochi filosofi cattolici tedeschi (93) possa aver svolto alcun ruolo. E questo vale anche per alcuni fattori non sensibili presenti nella teoria dell’Ideale di Winckelmann e di Wieland (94): questa teoria si riferiva specificamente all'estetica, ed influenzò certamente Kant, ma più tardi, ed in un’area del tutto differente (95)." (pp. 126-127)

    (93) Qualche forma di innatismo è presente specialmente tra i Benedettini, come I. Graw (1749. Vedi W. A. Mühl, Die Aufklärung an der Universität Fulda mit besonderer Berücksichtigung der philosophischen und juristischen Fakultäten [Fulda, 1961], p. 41) e G. Cartier (vedi B. Jansen, Philosophen katholischen Bekenntisses in ihrer Stellung zur Philosophie der Aufklärung, in «Scholastik», XI [1936], p. 10). Ma anche il gesuita Redlhammer era sostenitore della dottrina delle idee innate (vedi C. Werner, Der Heilige Thomas von Aquin, III [Regensburg, 1889], p. 637).

    (94) Questa teoria compare in un’opera postuma (scritta nel 1759) di Winckelmann, e, nel 1764, nella sua Geschichte der Kunst des Altertums. Wieland espose la stessa concezione in un saggio del 1777. Si veda, per entrambi, G. Tonelli, « Ideal », voce in Dictionary of thè History of Ideas, ed. Philip Wiener [New York, 1973].

    (95) Vedi G. Tonelli, Kant's Early Theory of Genius, 1770-1779, in « Journal of thè History of Philosophy », IV (1966). [Ora tradotto in italiano e raccolto nel presente volume. N. d. T.].

  3. ———. 1987. "Zabarella ispiratore di Baumgarten o l’origine della connessione tra estetica e logica." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 139-146. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Zabarella inspirateur de Baumgarten ou l’origine de la connexion entre esthétique et logique, in « Revue d’Esthétique », IX, 1956, pp. 182-192.

    "Non occorre ricordare il posto che occupa, nella storia dell’estetica, Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762): tutti sanno che l’estetica gli deve il proprio nome. E noi abbiamo avuto l’occasione di richiamare altrove (1), recentemente, il suo influsso su Kant, in quel periodo molto delicato della storia del criticismo che va dal 1765 al 1770. Uno dei punti importanti di questa dottrina è il rapporto tra teoria del bello e logica." (p.139)

    (...)

    "Queste idee di Baumgarten hanno, ci pare valga la pena di rilevarlo, dei precedenti molto interessanti in un pensatore italiano del Cinquecento: Zabarella (1553-1589), l’autore del De rebus naturalibus e di commenti importanti su Aristotele, che professò a Padova un tomismo molto evoluto in direzione dell’umanesimo rinascimentale (3). Zabarella infatti pretende di essere il primo a dimostrare la connessione tra logica e ‘poetica’, e non abbiamo degli elementi che ci spingano a dubitare del suo diritto di priorità. Retorica e poetica sono, secondo Zabarella, partes logicae et philosophiae instrumenta; ciò che nessuno fino ad allora aveva sostenuto (nomo hactenus declaravit: l. II, cap. XIII, p. 78). Retorica e poetica, a dire il vero, non fanno parte né della filosofia ‘contemplativa’ né della morale (cap. XIV, p. 78). Esse sono anzitutto, come la grammatica, facoltà strumentali e più precisamente instrumenta civilis disciplinae, ossia sono utili all’azione (ibid. e cap. XV, p. 82); si direbbe, con linguaggio odierno, che non hanno né un valore speculativo né un valore etico, bensì un valore pragmatico. In effetti la retorica contribuisce a inculcare la moralità (p. 83), la poetica a correggere i costumi (p. 84). Inoltre esse fanno parte della logica che, a sua volta, non è né scienza né morale, ma disciplina instrumentalis come la grammatica (1. I, cap. X, p. 22) (4). Ora retorica e poetica non fanno parte della logica generale, che « insegna la forma stessa del ragionamento » (docet ipsam ratiocinandis formami): fanno parte invece della logica particolare che permette che, « volendo usare il discorso per questo o quel fine, sappiamo a quale materia, cioè a quali proposizioni occorre applicare tale forma; e che troviamo le proposizioni stesse, quando occorra, e le abbiamo a disposizione » (5)." (pp. 140-141)

    (...)

    "In conclusione, anche se la teoria baumgarteniana (che si trova nella Metaphysica) dell’estetica o scienza del bello, come scienza della facoltà inferiore o della conoscenza sensibile in generale, può essere agevolmente spiegata prescindendo da una dipendenza diretta dal testo di Zabarella (15), l’influenza del filosofo padovano ci sembra estremamente probabile riguardo alla dottrina specifica (che s’incontra nell’Aesthetica di Baumgarten) dell’induzione estetica e dell’esempio, come complemento di un ragionamento razionale insufficiente. Baumgarten avrebbe notato una certa analogia tra la propria posizione e quella dell’italiano ed avrebbe utilizzato alcuni suoi suggerimenti ben precisi, conferendo loro una funzione indubbiamente originale nell’insieme di un sistema ben diverso. Questo intreccio di tradizione cartesiano-leibniziana e di tradizione averroista avrebbe costituito una nuova piattaforma di cui Kant, sensibile anche ad altre suggestioni e problemi, doveva in seguito far rilevare la debolezza: il suo tentativo di chiarificazione del problema doveva condurre alla rivoluzione del 1769.

    È interessante altresì notare che il discepolo più importante di Baumgarten, G. F. Meier, in un’opera di estetica (16) comparsa dopo la Metaphysica di Baumgarten, ma prima dell’Aesthetica di questi, sviluppa, muovendo dalle posizioni speculative della Metaphysica del suo maestro, una teoria del sillogismo estetico e dell’induzione estetica che non è molto lontana dalle dottrine esposte in seguito da Baumgarten stesso nella aua Aesthetica, benché meno vicina alla dottrina zabarelliana di Baumgarten." (p. 144)

    (1) G. Tonelli, Kant dall'estetica metafisica all’estetica psicoempirica, Torino, 1955, spec. cap. IV.

    (3) Lo citeremo qui da J. Zabarella, Opera Logica, ed. postrema, Francofurti, 1626: De Natura Logicae, libri duo. [di quest'opera è disponibile una nuova edizione a cura di Dominique Bouillon con testo latino e traduzione francese a fronte: Jacques Zabarella, La nature de la logique, Parigi: Vrin, 2009]

    (4) Una disciplina instrumentis dev’essere distinta anche dall’arte. Infatti è « quidem habitus animi; non tamen effectivus alicujus operis extra animum, sed ipsomet animo: adeo ejus operatio est immanens » (l. I, cap. VII, pp. 16-17); diversamente sarebbe un’arte.

    (5) Ut ad alium et allumi scopum discursum uri volentes, sciamus cui materiae, id est, quibus propositionibus ea forma applicanda sit, ipsasque propositiones, quando opus fuerit, inveniamus, et in promptu habeamus (l. II, cap. IX, p. 85).

    (15) Infatti, come abbiamo mostrato altrove, l’ambiente offriva molteplici stimoli in questa direzione: più di una volta, e specialmente in Leibniz, si riscontra una identificazione della bellezza con una conoscenza chiara ma confusa (non distinta). Ed alcuni pensatori tedeschi del Settecento ripresero prima di Baumgarten, per la verità molto superficialmente, la connessione tra scienza del bello e logica, probabilmente sotto l’influsso di Zabarella. Su tutti questi punti cfr. G. Tonelli, op. cit., cap. IV.

    (16) G. F. Meier, Anfangsgründe aller schönen Wissenschaften, 3 Bde., Halle, 1748-1749-1750.

  4. ———. 1987. "L’ambiente storico-culturale di Königsberg e la formazione della filosofia kantiana." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 149-168. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Conditions in Königsberg and the Making of Kant’s Philosophy, in « Bewusstsein. Gerhard Funke zu eigen », Bonn: Bouvier, 1975, pp. 126-144.

    "Circa vent’anni fa (1) Gerhard Lehmann faceva notare che, per quanto strano potesse sembrare, c’era un numero davvero limitato di studi sulla vita di Kant, e quelli esistenti avevano per di più il difetto di non prendere nella dovuta considerazione alcuni aspetti fondamentali del problema, primo fra tutti quello dei possibili rapporti rinvenibili tra la vita di Kant come semplice essere umano e ciò che egli, come filosofo, aveva prodotto. A quel tempo questo corrispondeva al vero, se si eccettuano quel tanto di attenzione solitamente riservata, nella maggior parte delle biografie di Kant, ai suoi insegnanti e alla sua educazione, e qualche studio dedicato ai suoi gusti letterari e alle sue esperienze del bello nella natura e nell’arte, fattori, questi, che avrebbero condizionato le sue idee in materia di estetica (2). Quell’osservazione risulta tuttavia oggi ancor più pertinente, poiché da quando, nel 1954, vennero avanzate dallo stesso Lehmann alcune proposte di ricerca in quella direzione, non è stato fatto in realtà alcun passo avanti.

    Con la sua esortazione Lehmann intendeva suggerire la opportunità di indagare in modo più approfondito lo sviluppo della personalità kantiana in quanto strettamente connesso alla sua evoluzione filosofica; personalmente, però, ritengo ci sia anche qualcosa in più da dire a proposito del generale ambiente intellettuale di Königsberg, e dell’eventuale influenza che esso esercitò su alcuni aspetti del pensiero di Kant; bisogna, in altri termini, favorire un accostamento al problema che non muova soltanto da una prospettiva psicologica, ma utilizzi anche quella della sociologia della conoscenza. Questo non significa ovviamente che la filosofia di Kant possa venire, in tal modo, « spiegata »; significa soltanto che un’indagine di questo tipo può fornire qualche chiarimento per quanto riguarda alcuni caratteri più o meno generali di quella filosofia, relativi a certi momenti della sua evoluzione.

    Ovviamente, le generali condizioni politiche e religiose della Prussia esercitarono senza dubbio un forte influsso sul pensiero politico e religioso eli Kant, ed anche questo aspetto richiederebbe uno studio approfondito (3). Ciò che in questo contesto desidero tuttavia prendere in considerazione, è la situazione intellettuale a Königsberg negli anni che videro i primi sviluppi della filosofia kantiana, muovendo da un esame preliminare di quei presupposti storici che sono indispensabili per comprendere una tale situazione. Königsberg e in particolare la sua università, l’Albertina, costituirono infatti lo scenario di alcune aspre lotte tra fazioni filosofico-religiose, che non possono non aver lasciato traccia sulla iniziale prospettiva filosofica di Kant, formatasi in quell’ambiente. I fatti in questione non sono stati ritenuti significativi dai biografi di Kant, Vorländer incluso: essi non hanno afferrato la loro importanza, né hanno favorito la loro comprensione; l’ispirazione a carattere prevalentemente agiografico dei loro lavori ha inoltre impedito loro di andare a fondo di certe intricate e controverse questioni, o ha fatto sì che essi non vi annettessero alcuna importanza in relazione a Kant." (pp. 149-150)

    (1) G. Lehmann, Kant’s Lebenskrise, in « Neue deutsche Hefte », 1954, p. 510 sgg. (Rist. in G. Lehmann, Beiträge zur Geschichte und Interpretation der Philosophie Kants, Berlin, 1969).

    [N.B. Gli argomenti trattati in questo saggio sono stati ripresi ed approfonditi da Marco Sgarbi, Logica e metafisica nel Kant precritico. L'ambiente intellettuale di Königsberg e la formazione della filosofia kantiana, Bern: Peter Lang, 2010.

    Riassunto del volume a cura dell'autore:

    "Nel suo pionieristico lavoro Conditions in Königsberg and the Making of Kant’s Philosophy (1975), Giorgio Tonelli lamentava l’assenza di un’indagine approfondita sull’ambiente intellettuale di Königsberg e dell’eventuale influenza che esso esercitò su alcuni aspetti del pensiero di Kant, al di là di lavori biografici di evidente carattere agiografico che hanno spesso impedito agli studiosi di andare a fondo di controverse questioni dalle quali la filosofia kantiana avrebbe tratto origine. La presente ricerca mira a colmare questa lacuna esaminando la situazione intellettuale di Königsberg negli anni che videro emergere i primi tentativi filosofici kantiani, partendo dall’assunto che Königsberg con la sua università costituirono lo scenario privilegiato di riferimento dal quale Kant di fatto attinse fondamentali idee e problemi. In particolare l’attenzione è posta sulla tradizione aristotelica, sulla Schulphilosophie, e sulla corrente dell’eclettismo, le quali dominarono l’ambiente regiomontano sino all’avvento della filosofia critica kantiana.

    La metodologia seguita è quella elaborata da Norbert Hinske della Begriffsgeschichte e della Quellengeschichte come anche quella dell’intellectual history e della storia dei problemi. Il lavoro è fondato su documenti nuovi, originali, inediti o ritrovati, come i Vorlesungsverzeichnisse 1703-1719, le Einladungsschriften, e i manuali aristotelico-scolastici adottati ufficialmente all’Albertina.

    Nell’introduzione si cerca di giustificare l’importanza di un lavoro sull’impatto dell’ambiente intellettuale regiomontano sul Kant precritico rispetto soprattutto ai risultati già ottenuti dalla ricerca, mentre nel primo capitolo è esamina la storia della cattedra di logica e metafisica a Königsberg dagli inizi del XVIII secolo sino a Kant. Il secondo capitolo tratta il problema della logica delle facoltà in Kant rispetto alla tradizione aristotelica di Königsberg, in particolare in relazione alle discipline della noologia e della gnostologia. Il terzo e il quarto capitolo esaminano i primi interessi kantiani per la metafisica e il passaggio dall’ontologia alla logica alla luce della tradizione della Schulphilosophie di Königsberg. Il quinto e il sesto capitolo trattano delle prime riflessioni logico-metodologiche di Kant con particolare riferimento alla tradizione metodologica regiomontana e ai problemi legati alla sillogistica e all’ars combinatoria.

    Il risultato del lavoro mostra come dai fallimenti dei progetti logici e metafisici precritici legati alle influenze ricevute dall’ambiente intellettuale di Königsberg, Kant abbia tratto le idee e gli spunti per la stesura della Kritik der reinen Vernunft." (p. 11)]

  5. ———. 1987. "La ricomparsa della terminologia dell’aristotelismo tedesco durante la genesi della Critica della ragion pura." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 171-180. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Das Wiederaufleben der deutsch-aristotelischen Terminologie bei Kant während der Entstehung der 'Kritik der reinen Vernunft’, in « Archiv für Begriffsgeschichte », IX, 1964, pp. 233-242.

    "In questa relazione presenterò alcuni risultati cui sono pervenuto nell’ambito delle mie ricerche sulla genesi della Critica della ragion pura. Poiché tali ricerche non sono ancora concluse, quanto è qui esposto va considerato come provvisorio (1).

    Le mie ricerche si riferiscono agli anni tra il 1769 e il 1781, cioè al periodo che intercorre tra la ‘gran luce’ del 1769 e la Critica della ragion pura. Sono stati usati come fonti le Reflexionen dal Nachlass e gli appunti delle lezioni di quegli anni, unitamente alle opere a stampa ed alle lettere. La datazione delle Reflexionen proposta dall’Adickes s’è confermata finora nel complesso attendibile, anche in rapporto alle altre fonti.

    In relazione a questo convegno il mio interesse è principalmente terminologico. Non è mia intenzione perciò in questa sede di esaminare il vero e proprio sviluppo del pensiero kantiano dal punto di vista della problematica (sto preparando a tal riguardo una monografia apposita); mi limiterò invece a cercar di chiarire l’origine dei nuovi termini che Kant assume in questo periodo. Per ‘nuovi termini’ intendo termini che Kant in precedenza non ha affatto usato, oppure usato solo occasionalmente e in maniera non sistematica (2).

    Fino al 1768 Kant ha fatto uso, in metafisica e nella metodologia, della terminologia abituale nelle scuole tedesche della prima metà del Settecento. Ma già nel 1769 compaiono importanti innovazioni, senza dubbio in corrispondenza con la grande svolta nel pensiero avvenuta in quell’anno; e nel periodo successivo continuano ad apparire nuovi termini, sicché alla fine il vocabolario della Critica della ragion pura presenta un quadro profondamente mutato rispetto al periodo precritico.

    Kant non amava introdurre propri neologismi, preferendo piuttosto accogliere spesso termini da altre lingue.

    Le fonti per i nuovi termini kantiani posteriori al 1769 sono affatto eterogenee. È tuttavia possibile delimitare in certo qual modo due grandi gruppi: al primo appartengono i termini provenienti dall’Essay di Locke e dai Nouveaux Essais di Leibniz, al secondo quelli derivanti dalla tradizione dell’aristotelismo tedesco. I termini del primo gruppo s’incontrano soprattutto negli anni 1769-1770, quelli del secondo nel periodo successivo.

    Ritengo causa determinante della svolta del 1769 la pubblicazione nel 1765 dei Nouveaux Essais leibniziani. Essi fecero indubbiamente un’impressione profonda su Kant e lo indussero, forse per la prima volta, ad uno studio accurato dell’Essay lockiano. Le dottrine di Locke e di Leibniz, unitamente ad alcuni saggi di Hume, diedero a Kant la possibilità di trovare una nuova soluzione ad una problematica molto complessa che già da anni lo vedeva impegnato (3)." (pp. 171-172)

    (...)

    "Le categorie di Kant (che peraltro non sono affatto genera summa) non sono certo riconducibili alle categorie aristoteliche, ma ai Grundbegriffe [concetti elementari] o unauflösliche Begriffe [concetti non risolvibili] che compaiono in Crusius, Tönnies, Tetens, Lambert e altri (14). Probabilmente Kant ha deciso dopo il 1770-1771 di chiamare categorie i suoi concetti elementari seguendo uno spunto di Crusius, il quale in una sua lunga nota afferma che le proprie categorie hanno il medesimo significato di quelle aristoteliche, purché queste ultime vengano rettamente intese, anzitutto come illimitate quanto al numero, che può essere addirittura infinito (15). Certo Kant, a questo riguardo, ha di mira piuttosto la costruzione di una tavola delle categorie conclusa (deduzione delle categorie): quest’esigenza, che non compare in lui prima almeno del 1770-1771, deriva a sua volta indubbiamente dalla tesi che Lambert, nella sua Architektonik del 1771, sosteneva con grande energia, e cioè che la Grundlehre [Dottrina elementare] o metodologia deve contenere un elenco completo dei ‘concetti elementari semplici’ (einfache Grundbegriffe) (16). A far accogliere comunque quest’esigenza nell’Architektonik (che negli anni Settanta ha esercitato su Kant un influsso durevole e profondo, senz’altro ben più dell'Organon di Lambert, che a questo proposito è molto più noto e viene più spesso citato) può avere concorso in Kant anche il ricordo delle critiche che a partire dal Rinascimento erano state indirizzate alle categorie aristoteliche, il cui nome egli ha trasferito ai suoi concetti elementari." (pp. 173-174)

    (...)

    "Si può comunque affermare che la maggior parte dei termini nuovi che Kant adotta dal 1769 fino alla Critica della ragion pura appartengono piò alla tradizione della scolastica tedesca del Seicento che alla filosofia dell’epoca immediatamente precedente Kant. Si tratta di termini che, molto in uso nel Seicento, erano stati poi trascurati dalle scuole antiaristoteliche del Settecento, oppure di termini che, noti ma non molto diffusi nel Seicento, nel secolo successivo erano pressoché caduti in dimenticanza. L’attenzione di Kant è stata attirata su alcuni di questi termini dai suoi contemporanei, ma il fatto stesso ch’egli abbia accolto con particolare predilezione simili rimandi al linguaggio scolastico degli aristotelici, e che poi abbia attinto anche da sé nuovi termini dalla medesima fonte, ha sicuramente un significato storico che trascende il mero aspetto linguistico.

    In effetti Kant, dopo il 1769, era perfettamente consapevole che le sue tesi metodologiche erano del tutto nuove e comportavano una rottura col passato. Per sottolineare la sua originalità, e per evitare nello stesso tempo confusioni tra i propri concetti e quelli dei contemporanei, Kant si è sentito costretto in molti casi ad introdurre per i suoi nuovi concetti dei termini anch’essi nuovi. Forse vocaboli o trasposizioni originali sarebbero stati la soluzione migliore, ma sarebbero potuti apparire un segno di presunzione agli occhi dei contemporanei, o almeno avrebbero potuto suscitare diffidenza e disagio. Kant ha preferito perciò richiamarsi a quell’antica e rispettabile tradizione ch’era l’aristotelismo, la cui terminologia non era certo più in voga, ma nell’ambiente accademico era pur sempre ancora comprensibile — e ciò specialmente a Königsberg, dove l'aristotelismo s’era mantenuto vivo ben dentro il Settecento (21).

    In tal modo era evitato il pericolo di una confusione con le dottrine dei contemporanei ed anche i termini, pur riempiti di un contenuto interamente nuovo, non avevano un suono estraneo alle orecchie del lettore.

    Nella scelta e nella formulazione del suo vocabolario Kant si è comportato in maniera completamente diversa rispetto ai filosofi dell’inizio del Settecento, che seguendo il modello wolffiano nelle loro opere in lingua tedesca avevano sostituito o tradotto i termini greci e latini con composti, all’occorrenza appositamente coniati, di origine germanica: Kant preferisce trasporre semplicemente in una forma soltanto esteriormente tedesca termini greci e latini, come usavano fare alcuni dei suoi immediati contemporanei.

    È bensì vero che i concetti di Kant sono, sul piano del contenuto, molto lontani dai loro omonimi aristotelici; tuttavia in alcuni casi è possibile affermare che i riferimenti terminologici esteriori stabiliti da Kant hanno sviluppato un certo influsso intrinseco. A questo proposito abbiamo già accennato al problema della deduzione delle categorie; inoltre si può supporre, ad esempio, che l’adozione dei termini analitica e dialettica per designare due gruppi di problemi della metodologia ha provocato anche una separazione di questi problemi, che d’allora in poi, secondo il modello della Introductio in artem inveniendi [1742] di Darjes, dovettero essere trattati in due sezioni diverse (mentre nella Dissertatio [del 1770] erano apparsi ancora in connessione reciproca): ciò ha comportato indubbiamente importanti trasformazioni strutturali." (pp. 179-180)

    (1) La forma espositiva comporta l’impossibilità di presentare la documentazione in tutta la sua ampiezza. Alcuni problemi sono già stati da me trattati in articoli appositi e spero di poter presto pubblicare in altra forma ulteriori ricerche.

    (2) Per la terminologia di Kant nell’epoca precedente il 1769 cfr. G. Tonelli, Kant, dall'estetica metafisica all’estetica psicoempirica. Studi sulla genesi del criticismo (1754-1771) e sulle sue fonti, in «Memorie della Accademia delle Scienze di Torino», serie 3, Tomo 3, Parte II. Torino, 1955 e Id., Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768, voi. I, Torino, 1959.

    (3) Per il tentativo di una spiegazione della ‘rivoluzione copernicana’ del 1769 cfr. G. Tonelli, Kant, dall’estetica..., cit., SS 149-164, in cui peraltro non trattiamo l’influsso di Locke e di Leibniz, ma soltanto l’occasionale problematica che ha reso Kant disponibile all’influsso di Locke e di Leibniz; cfr. anche G. Tonelli, Die Umwälzung von 1769 bei Kant, in « Kant-Studien », 1963 (LIV), pp. 369-375.

    (15) C. A. Crusius, Weg zur Gewissheit und Zuverlässigkeit der menschlichen Erkenntnis, Leipzig, 1762, § 137, Anmerkung.

    (16) J. H. Lambert, Anlage zur Architektonik, oder Theorie des Einfachen und des Ersten in der philosophischen und in der mathematischen Erkenntniss, 2 Bde., Riga, 1771, I, § 34.

    (21) M. Wundt, Die deutsche Schulphilosophie im Zeitalter der Aufklärung, Tübingen, 1945 [rist.: Hildesheim, 1964], p. 117 e sg

  6. ———. 1987. "Primi sviluppi della teoria del genio in Kant (1770-1779)." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 183-234. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Kant’s Early Theory of Genius (1770-1779), in « Journal of the History of Philosophy », IV, 1966, diviso in due parti, rispettivamente alle pp. 109-131 e pp. 209-224 della rivista.

    Prima parte:

    "L’importanza della teoria del genio nella filosofia di Kant venne riconosciuta relativamente presto nella storia della Kantforschung, e all’argomento sono stati dedicati diversi lavori (1). Nessuno ha tuttavia, fino ad oggi, tentato di ricostruire lo sviluppo delle idee di Kant sul genio utilizzando il materiale contenuto nel suo Nachlass, pubblicato da Adickes (2). Questo è appunto quanto io tenterò di fare nel presente lavoro, limitando la mia analisi agli anni a cavallo tra il 1770 e il 1779, durante i quali Kant venne svolgendo gli studi preliminari alla elaborazione della Critica della ragion pura.

    Cercherò dapprima di definire quali fossero le idee di Kant sul genio nel suddetto arco di tempo, ed in secondo luogo tenterò di rintracciarne le origini nel retroterra culturale di Kant." (p. 183)

    (...)

    "Se tentiamo ora di trarre qualche conclusione circa la funzione dello spirito, possiamo dire che esiste un senso più generale del termine, in base al quale lo spirito viene definito principio vivificante dell’animo (intelletto più sensibilità) per mezzo di un’idea (concetto a priori, regola universale). Il termine spirito viene poi usato in due sensi più ristretti. In un primo senso lo spirito, in quanto elemento pertinente al talento (e nella misura in cui il talento viene distinto dal genio), vivifica un oggetto mediante un’idea precedentemente data; in questo senso esso è vivificante e può essere, in certa misura, nuovo, dal momento che il talento è una facoltà produttiva di qualcosa di nuovo (o di un nuovo espediente) conformemente però a regole conosciute (vedi sopra parr. 3 e 4). Lo spirito non è però, in questo senso, originale. Questa prima accezione più ristretta del termine è illustrata in modo sommario e per lo più poco chiaro nel materiale in esame, e i caratteri più precisi della sua fisionomia vengono soltanto desunti, per necessità di chiarezza, da altri elementi del tipo di quelli analizzati nei parr. 3, 4 e 7.

    In un secondo senso particolare, illustrato in modo assai più ampio da Kant, lo spirito, inteso non più soltanto come spirito spontaneo, ma anche come spirito originale, viene considerato sinonimo di genio, o un elemento di esso. Uno spirito originale di questo tipo è creatore di nuove idee. Tuttavia, nei contesti pertinenti, il significato dello spirito come elemento del genio viene per lo più generalmente circoscritto alla sua funzione vivificante, mentre l’elemento propriamente creativo viene più spesso chiamato genio (nel senso di costellazione di facoltà), e non spirito. Solo in poche Riflessioni lo spirito viene totalmente identificato col genio." (pp. 188-189)

    (1) Vedi in particolare: K. Hoffman, Die Umbildung der Kantischen Lehre vom Genie in Schellings System des transscendentalen Idealismus (Bern, 1907, Berner Studien zur Philos. u. ihrer Geschichte, LIII); R. Schlapp, Kants Lehre vom Genie und die Entstehung der « Kritik der Urteilskraft » (Göttingen, 1901); O. Schondorffer, Kant’s Definition vom Genie, « Altpreussische Monatsschrift », 1893, XXX; O. Wichmann, Kant’s Begriff vom Genie und seine Bedeutung, « Deutsche Akademische Rundschau », Jhg. II, 12 Sem., Folge N. 2; 7, 15 Jan. 1925. Lo studio di Schlapp, che si avvale dei Kolleghefte di Kant (appunti presi dalle sue lezioni), è particolarmente importante.

    (2) Nei Kants Gesammelte Schriften, pubblicati dalla Preussische Akademie der Wissenschaften. A questa edizione rinviano le nostre citazioni. Indichiamo solo il numero del volume e la pagina per le opere pubblicate di Kant, e il numero del volume e quello della Riflessione per quel che riguarda il Nachlass. Facciamo riferimento all’ultima edizione degli scritti nella Preussische Akademie Ausgabe. Intendiamo utilizzare il Nachlass di Kant secondo gli stessi criteri definiti in G. Tonelli, Kant, dall’estetica metafisica all'estetica psicoempirica. Studi sulla genesi del criticismo (1754-1771) e sulle sue fonti, (Torino, 1955), Memorie della Accademia delle Scienze di Torino, Serie 3*, Tomo 3, Parte III. Vedi pp. 7-10, 192, 253-255.

    Seconda parte:

    "In sostanza, il genio (o spirito) rappresenta una facoltà spirituale davvero straordinaria. Esso è una forza creativa, i cui prodotti possono trovarsi nell’esperienza, e neppure dedursi razionalmente leggi universali della mente; il genio è spontaneo, è libero, è quale di cui non si può render ragione (si potrebbe dire, spiritus fiat ubi vult) è una facoltà che rende l’uomo capace di arrivare a certe nozioni, diversamente inattingibili, che sono analoghe alle idee di Dio, analoghe cioè alle strutture trascendentali del mondo quale dovrebbe propriamente essere. « L’uomo stesso non conosce questo spirito peculiare, e non i moti di esso in proprio potere », scrive in un passo Kant (Rifl. 93 XV). Altrove tuttavia egli sembra offrire qualche elemento ulteriore di chiarificazione di questa forza misteriosa contrapponendola all’arte (non geniale). L’arte (107), come già sappiamo, è come un giardino, in cui tutto è disposto metodicamente secondo regole: il genio è invece come un bosco in cui la natura libera e feconda sparge i propri doni (Rifl. 734 XV). Nel genio, la natura rende superflua l’arte (Rifl. 922, XV); il genio è fecondato dalla natura plastica (= creativa) (Rifl. 936, XV); lo spirito non è soggetto alla volontà dell’uomo, ma i suoi moti provengono dalla natura (Rifl. 831, XV). Come si è visto in precedenza (par. 4), lo spirito non è una facoltà singola, ma è l’universale vivificazione di tutte le facoltà. Nella Rifl. 938, XV, Kant tenta una spiegazione metafisica di questo carattere psicoempirico dello spirito: « Lo spirito, essendo rivolto all’universale, è, per così dire, divinae particula aurae, e viene attinto dallo spirito universale. C’è un solo genio: è l’unità dell’anima del mondo (die Einheit der Weltseele) » (108).

    È noto che, a partire dal 1770, il mondo costituisce per Kant un phaenamenon la materia del quale è data dai sensi, mentre i diversi tipi di forme e strutture intellettuali che gli ineriscono derivano dal soggetto. La « natura » tende inoltre a venir riguardata come una sorta di livello più profondo del soggetto stesso; la « natura umana » di quest’ultimo è solo un concetto empirico, contrapposto come tale ad un altro concetto empirico, quello di « mondo esterno »: all’origine tanto della natura umana che del mondo esterno sembra esserci una « natura » genericamente indifferenziata, effetto diretto della potenza creatrice di Dio. Ora, per spiegare il mondo fenomenico nella sua interezza e, a maggior ragione, per soddisfare bisogni morali trascendenti, nulla di quanto nel mondo fenomenico è suscettibile di spiegazione dal punto di vista del soggetto empirico è, di per sé, sufficiente.

    I concetti empirici e le regole dell’arte hanno infatti un raggio d’azione limitato. Al di là di essi, le strutture della realtà e del dovere morale possono venir colte soltanto se il livello più profondo del soggetto (quello che rappresenta al tempo stesso l’origine del soggetto e del mondo, vale a dire l’anima del mondo) riesce ad emergere aprendosi un varco entro l’intelaiatura costituita dalle forme pure e dalle strutture intellettuali, suscitando in tal modo una nuova consapevolezza che deriva direttamente dallo spirito di Dio; è la Natura in personam, nella sua veste più segreta e solenne e nel suo giusto anelito verso la perfezione, che si rivela nell’uomo e viene da esso realizzata.

    Questo retroterra metafisico è da raccomandare particolarmente, come esempio istruttivo, all’attenzione di coloro che sono soliti considerare Kant un pensatore di freddo raziocinio, alieno da qualsivoglia divagazione di natura trascendente." (pp. 204-205)

    (...)

    "In conclusione, si può osservare che quasi nessuna delle idee di Kant sul genio può definirsi originale per quel che riguarda la sua fisionomia culturale di superficie. Persino alcune divergenze di opinione che caratterizzavano il suo ambiente, come ad esempio l’ambiguità della posizione che dichiarava il genio libero dalle regole e, ciò malgrado, rispettoso di esse, o, ancora, il rapporto mai del tutto definito tra spirito e genio, vengono rispecchiate dalle corrispondenti oscillazioni del pensiero di Kant.

    E tuttavia, il modo particolare in cui Kant selezionò e rimodellò alcuni di quei tratti del genio, spesso tra loro contrastanti, che avevano trovato espressione nelle teorie elaborate dai suoi contemporanei, deve essere compreso solo sulla base della sua personale evoluzione, e non può spiegarsi tramite la semplice rilevazione statistica di quelle caratteristiche che venivano prevalentemente attribuite al genio nel suo ambiente. Inoltre, la struttura sistematica che Kant diede all’insieme di questi tratti, e ad ognuno di essi singolarmente, si colloca, per la sua profondità, molto al di sopra del livello di quella che seppero elaborare i suoi contemporanei, ed è sostanzialmente originale. Non è possibile a questo punto investigare la genesi di questa selezione e di questa sistematizzazione; essa dipende in larga misura dallo sviluppo della teoria dell’idea (tanto nel campo estetico, che in quello della metodologia della metafisica) che si determinò negli anni compresi tra il 1770 e il 1780, e che verrà preso altrove in esame; dobbiamo quindi, per il momento, contentarci di esporre semplicemente i risultati cui pervenne Kant, visti sullo sfondo dell’ambiente che gli era proprio." (p. 216)

    (107) Bisogna ricordare che il termine « arte » privo di attributi sta ad indicare un concetto molto ampio che comprende tanto le arti meccaniche, o mestieri, che l’aspetto tecnico dell’arte del bello.

    (108) Come si è visto nella nota 36, Kant aveva fatto riferimento molti anni prima, ma in un diverso senso, ad un Weltgeist [spirito del mondo].

  7. ———. 1987. "Divinae particula aurae. Idee geniali, organismo e libertà. Una nota sulla Riflessione 938 di Kant." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 237-245. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Divinae Partícula Aurae; Genial Ideas, Organisation and Freedom: A Note on Kant's Reflection N. 938, in « Journal of the History of Philosophy », 1969, pp. 192-198.

    "1. Nel par. 21 del mio articolo « Kant's Early Theory of Genius (1770-1779) » (1), cito dalla Riflessione 938 di Kant, il cui testo completo è il seguente:

    Lo spirito, essendo rivolto all’universale, è, per così dire, , e viene attinto dallo spirito universale. Pertanto lo spirito [in se stesso] non ha proprietà particolari, ma, a seconda dei diversi talenti e delle sensibilità [dell’uomo] cui viene attribuito, vivifica nei modi più diversi; e dato che questi sono del più vario genere, ogni spirito ha qualche cosa di peculiare. Non si deve dire: i geni [c’è, invece, un solo genio], È l’unità dell’anima del mondo (2).

    Kant si riferisce a questo spirito come alla fonte tanto delle idee geniali o « originali » nella mente umana, quanto della vita organica nel mondo esterno (PSGK, parr. 22, 23).

    Questa teoria deriva naturalmente dall’antica dottrina platonico-stoico-ermetica dell’Anima del Mondo, che ebbe un’enorme diffusione non soltanto nel Medioevo (Scuola di Chartres etc.), ma anche dal Rinascimento fino al diciottesimo secolo e perfino più tardi, specialmente tra filosofi stoici, cabbalisti, ermetici, pansofici e mosaici, tanto in psicologia (dove l’anima umana veniva intesa come una parte dell’anima del Mondo) che nella filosofia naturale tra gli oppositori del meccanicismo (inteso o in generale, o in relazione soltanto agli organismi viventi) (3).

    Nella Germania all’inizio del diciottesimo secolo, questa dottrina era ancora sostenuta, nel campo della filosofia naturale, da Christian Thomasius (4), e da alcuni dei suoi allievi, quali Lange e Rüdiger; essa ricopriva anche un ruolo importante in generale nella teoria di Swedenborg della vita e dell’anima, e Swedenborg era, naturalmente, molto noto a Kant (e nella Germania in genere, dove Oetinger era uno dei suoi più ferventi apostoli). Non è dunque sorprendente che Kant faccia riferimento ad una tradizione tanto diffusa, impiegandone la terminologia in un modo che non può essere considerato interamente metaforico, quantunque all’interno del sistema di Kant i concetti corrispondenti subissero molti mutamenti fondamentali, fino al momento in cui riapparvero, in una forma in verità irriconoscibile, nella Critica del giudizio.

    Nondimeno, la formula « divinae particula aurae » non era stata frequentemente impiegata nella sterminata letteratura sull’Anima del Mondo, e può essere ai qualche interesse chiarire la sua origine (soprattutto poiché questo ci consentirà di esaminare il retroterra della dottrina kantiana dello spirito). Quando Kant inseriva del latino nel contesto tedesco delle sue Reflexionen, ciò avveniva o perché stava citando qualche testo latino o perché (caso assai più frequente) aveva la sensazione che la terminologia filosofica latina corrente al suo tempo si prestasse ad un miglior uso di quella tedesca. In quest’ultimo caso, Kant soleva ricombinare liberamente i vecchi termini in nuove frasi (o latine, o per metà tedesche e per metà latine).

    Entrambe le ipotesi possono venire considerate per la formula in questione. Cominciando dalla seconda, è piuttosto facile ritrovare espressioni simili, quantunque non identiche, all’interno della letteratura sulla Anima del Mondo. Soprattutto nella corrente stoica di questa tradizione, era piuttosto usuale definire l’anima (intesa o specificamente come anima umana, o, in generale, come il principio della vita) una particella o ima scintilla dello spirito di Dio (5). J. C. Sturm, ad esempio, sebbene non fosse uno stoico, chiamava l’anima « efficaciae divinae quasi particula » (6), e Christian Wolff osteggiava l’opinione di alcuni filosofi antichi, e di Spinoza, secondo la quale l’anima è una « partícula mentis divinae » (7)." (pp. 237-238)

    (1) G. Tonelli, Kant’s Early Tbeory of Genius (1770-1779), in «Journal of the History of Philosophy», IV (1966), p. 209; l’articolo è pubblicato in due parti, pp. 109-131 e pp. 209-224. [Ora tradotto in italiano e riportato in questo stesso volume sotto il titolo Primi sviluppi della teoria del genio in Kant (1770-1779). A tale articolo si farà d’ora innanzi riferimento nel testo con la sigla PSGK. N. d.T.].

    (2) « Weil der Geist aufs allgemeine geht, so ist er so zu sagen divinae particula aurae und aus dem allgemeinen Geist geschöpft. Daher hat der Geist nicht besondere Eigenschaften, sondern nach den verschiedenen Talenten und Empfindsamkeiten, worauf er fällt, belebt er verschiedentlich und, weil diese so mannigfaltig seyn, so hat jeder Geist was eigenthümliches. Man muss nicht sagen: Die genie’s. Es ist die Einheit der Weltseele » (Immanuel Kant, Gesammelte Schriften [Berlin, Preussische Akademie der Wissenschaften, XV (1923), parte 1, p. 416]. Questa Riflessione è una nota sulla Metaphysica di Baumgarten. Secondo Adickes, venne probabilmente scritta tra il 1776 e il 1778, meno probabilmente nel 1772.

    (3) Vedi la voce « World Soul » (con riferimenti bibliografici, a cura di T. Gregory e G. Tonelli), nell’ed. del 1967 della New Catholic Encyclopedia. Un resoconto storico ancora utile, quantunque molto parziale, di questa dottrina è dato da A. Rechenberg (praeses) e J.D. Güttner (Auctor & Respondens), De mundi anima dissertatio (Lipsiae, 1678). Vedi anche PSGK, nota 153.

    (4) Si vedano i miei Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768 (Torino, 1959), I, pp. 97-98. Christian Thomasius era stato influenzato, sotto questo aspetto, tanto dall’interesse di suo padre (Jakob Thomasius) per la filosofia stoica (v. sotto), quanto dalla tradizione tedesca comeniana e pansofica del diciassettesimo secolo — una tradizione collegata in vari modi con il pietismo. Christian Thomasius aveva avuto rapporti con il pietismo nel corso di un’importante fase della sua evoluzione, ed i suoi allievi erano pietisti.

    (5) Lo spirito di Dio è l’Anima del Mondo e non, beninteso, lo Spirito Santo della Trinità, perlomeno per la tradizione cristiana occidentale, fatta eccezione per alcuni eretici. Indubbiamente in diversi casi (come per Sturm, v. sotto) autori dell’Occidente cristiano usarono simili espressioni in riferimento a Dio stesso, e non all’Anima del Mondo, perché generalmente, a loro modo di vedere, l’anima umana e la vita organica sono prodotte direttamente da Dio (e non dalla Natura meccanica); questi autori, ovviamente, non credevano nell’esistenza di un’Anima del Mondo.

    (6) Physica electiva (Norimbergae, 1697), I, p. 193: «gloriati insuper & laeta mente nobis subinde gratulati, quod qui sumus, vivimus & movemur, in ipso (Deo) vivamus, moveamur, & simus, h. e. per illam ipsam efficaciae divinae quasi particulam, quam corpori nostri fabricae specificae, & sic aliorum admirabiliter variantibus structuris singulis, applicatam... ».

    (7) Theologia naturalis (Francofurti et Lipsiae, 1737), II, par. 708: « Corpora & animae non sunt in Deo tanquam partes in toto, nec dici possunt particulae Dei... Schol. Fuere inter philosophos veteres, qui animam dixere particulam mentis divinae... ».

  8. ———. 1987. "Due fonti inglesi dimenticate della morale kantiana." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 249-256. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Deux sources britanniques oubliées de la morale kantienne, in Mélanges A. Koyré, publiés à l'occasion de son soixante-dixième anniversaire, Paris: Hermann 1964, vol. II, pp. 469-505.

    "Parecchi studi sono stati dedicati all’esame delle dottrine morali di Kant nel loro sviluppo (1), ma il quadro generale che ne risulta presenta ancora delle lacune molto gravi: (2) Wolff, Crusius, Baumgarten, Shaftesbury, Hutcheson, Rousseau e diversi altri moralisti sono stati studiati in una maniera più o meno soddisfacente nel loro rapporto con la morale kantiana, ma restano ancora da compiere molte esplorazioni di nuove fonti e molte indagini precise sulle fonti rintracciate fino ad ora.

    Intendiamo qui portare un piccolo contributo a questo compito che appare ancora immenso, richiamando alcune dottrine di due moralisti inglesi, David Fordyce e Richard Price, che hanno avuto probabilmente un certo influsso sullo sviluppo della morale kantiana tra il 1762 e il 1775.

    L’opera di Fordyce, Elements of Moral Philosophy, uscì a Londra nel 1754; una traduzione francese di Jancourt fu pubblicata all’Aia nel 1756 col titolo Éléments de philosophie morale, e una traduzione tedesca, Anfangsgründe der Sittenlehre, comparve a Berlino nel 1757. Quel che c’interessa in Fordyce è l’importanza da lui attribuita alla nozione d’obbligo, che acquista una struttura razionale precedente il piacere morale. Esiste in verità un « senso morale », una sorta d’« istinto » che impone delle valutazioni necessarie (3) che costituiscono l’obbligo; l’obbligo morale è per così dire « l’impronta della mano di Dio » su di noi (4) (beninteso, in quanto imposizione interiore e spontanea); si tratta perciò di una « voce distinta e ben forte della natura » (5). Ma quest’obbligo non nasce « da un semplice legame tra certe passioni » (6); d’altronde il piacere morale è posteriore all’idea di obbligo (7); la virtù, in definitiva, non è che la ragione, in quanto « percepisce la simmetria che esiste in una simile economia di facoltà e di passioni » (8)." (p. 249)

    (...)

    "L’opera di Fordyce c’interessa in ultima analisi soprattutto come veicolo probabile di diffusione del pensiero di [John] Balguy in Germania.

    Nessuna traduzione è stata fatta, in francese o in tedesco, dell’opera di Richard Price A Review of the Principal Questions and Difficulties in Morals [Esame delle questioni e difficoltà principali in morale] (London, 1758), ma il suo rapporto con certe dottrine di Kant è così stretto ch’è indispensabile studiarla in relazione al filosofo di Königsberg (21). Si può affermare che Kant abbia conosciuto direttamente l’opera di Price? Le analogie che vedremo lo lasciano sospettare. È vero che il problema di sapere se Kant era capace di leggere, sia pure con difficoltà, la letteratura filosofica in inglese, non è stato ancora risolto; ma anche nel caso si neghi questa possibilità è un fatto ben noto che tra i suoi migliori amici Kant contava dei commercianti scozzesi residenti a Königsberg, persone molto colte con cui intratteneva dei rapporti intellettuali su un piano molto elevato (22). Per esempio uno di questi amici, J. Green, era stato incaricato da Kant, in occasione di un viaggio a Stoccolma, di fare una specie di intervista a Swedenborg: quest’ultimo eccitava in quel momento la curiosità di Kant, che pubblicherà ben presto i Träume eines Geistersehers [Sogni di un visionario] (usciti nel 1765) (23). Si può dunque concludere che nell’epoca che ci interessa esisteva una sorta di collaborazione intellettuale tra Kant e almeno un amico scozzese, che avrebbe potuto assai facilmente tradurgli o riassumergli le novità letterarie inglesi.

    La posizione di Richard Price in morale deriva certamente in parte da quella di Balguy; ma Price aggiunge altri elementi di grande interesse.

    Il fattore razionalista è indubbiamente importante in lui, ma se l’intelletto è la fonte delle idee del giusto e dell’ingiusto (24), a differenza di S. Clarke e dei moralisti della perfezione, la percezione di queste idee è da lui considerata immediata e indipendente da ogni ragionamento (25)" (p. 251)

    (1) La citazione di questi studi si troverà nell’opera recente di J. Schmucker, Die Ursprünge der Ethik Kants, Meisenheim a. G., 1962, ad eccezione di: J. Bohatec, Die Religionsphilosophie Kants in der ‘Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft’, mit besonderer Berücksichtigung ihrer theologisch-dogmatischen Quellen, Hamburg, 1938 [ristampa: Hildesheim, 1966]; G. Tonelli, Kant, dall'estetica metafisica all’estetica psicoempirica. Studi sulla genesi del criticismo (1754-1771) e sulle sue fonti, Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino, Serie 3, Parte II, Torino, 1955; D. Henrich, Der Begriff der sittlichen Einsicht und Kants Lehre vom Faktum der Vernunft, in: Die Gegenwart der Griechen im neueren Denken, Festschrift für H.-G. Gadamer, Tübingen, 1960. Per le dottrine sull’ottimismo cfr.: G. Tonelli, Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768, vol. I, Torino, 1959, pp. 198 e sgg.

    (2) Si vedano a questo proposito le lunghe discussioni contenute nella nostra recensione dell’opera di Schmucker citata, recensione d’imminente pubblicazione presso Filosofia [1962 (XIII), pp. 670-678],

    (3) Citiamo dalla traduzione francese, p. 53.

    (4) p. 58.

    (5) p. 47.

    (6) p. 40.

    (7) p. 57.

    (8) pp. 38-39.

    (21) Esiste un’edizione moderna di quest’opera, a cura di D. Daiches Raphael, Oxford, 1948. Nella sua prefazione l’editore rileva l’analogia tra le dottrine di Price e quelle di Kant, ma non si pone il problema di un influsso. Su Price cfr. L. Aquist, The Moral Philosophy of Richard Price, Lund-Kobenhavn, 1960.

    (22) Cfr. K. Vorländer, I. Kant, der Mann und das Werk, 2 Bde., Leipzig, 1924, I, p. 122; sul problema cfr. Tonelli, Kant, dall’estetica..., cit., p. 134.

    (23) Cfr. C. O. Sigsted, The Swedenborg Epic. The Life and Work of E. S., New York and London, 1952, p. 303.

    (24) Citiamo dall’edizione originale, p. 60.

    (25) p. 59: « Il giusto e l’ingiusto denotano idee semplici e devono essere perciò attribuiti ad una facoltà di percezione immediata dell’intelletto umano ».

  9. ———. 1987. "L’etica kantiana parte della metafisica: una possibile ispirazione newtoniana? Con alcune osservazioni su «I sogni di un visionario» " In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 259-282. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Kant’s Ethics as a part of Metaphysics: a possible newtonian Suggestion? with Some Comments on Kant’s « Dream of a Seer », in « Philosophy and the Civilizing Arts. Essays Presented to Herbert W. Schneider », ed. by C. Walton and J. P. Anton, Athens: Ohio University Press, 1974, pp. 236-263.

    "Uno degli aspetti più notevoli del sistema filosofico kantiano è rappresentato dal fatto che l’etica viene in esso classificata come parte della metafisica, come si vede dai titoli di due tra le opere più importanti di Kant, la Fondazione della metafisica dei costumi e la Metafisica dei costumi. È davvero un peccato che nessun commentatore abbia mai, per quanto almeno mi risulta, sottolineato l’importanza di questo fatto e dei problemi ad esso sottesi; il fatto è stato dato per scontato, il problema ignorato. È tempo dunque di richiamare l’attenzione su di esso.

    Si tratta in realtà di uno dei mutamenti più radicali apportati da Kant alla struttura della filosofia nel suo complesso; prima di lui, per quanto io ne sappia, non si era sentito mai parlare di una subordinazione dell’etica alla metafisica. La metafisica era stata subordinata all’etica da Spinoza, probabilmente sotto l’influsso dei tardi sviluppi dello stoicismo, ma il tentativo opposto non era mai stato compiuto.

    Questo non significa ovviamente che prima di Kant l’etica non fosse mai stata fondata sulla metafisica; al contrario, questa fondazione dell’etica rappresentava senza dubbio una delle posizioni più comunemente adottate. Malgrado ciò però, l’etica era stata sempre considerata una scienza indipendente, e non una parte della metafisica.

    Non si deve d’altro canto pensare che per Kant considerare l’etica parte della metafisica equivalga ad ammettere una maggiore dipendenza dell’etica dalla metafisica stessa: l’etica diviene, al contrario, totalmente e sistematicamente indipendente dalla metafisica strictu sensu; ma, come vedremo, diviene parte della metafisica in quanto si trasforma appunto in fondazione di essa: è questo che rappresenta dunque la vera novità.

    L’espressione « metafisica dei costumi » (Metaphysik der Sitten) compare, per quanto mi risulta, per la prima volta nella lettera di Kant a Herder del 9 maggio 1768, in cui Kant afferma di stare lavorando ad una metafisica dei costumi che dovrebbe esser finita entro l’anno. Ma in una lettera a Lambert del 31 dicembre 1765, Kant aveva già preannunziato un lavoro sui « fondamenti metafisici della filosofia pratica ». L’espressione « metafisica dei costumi » viene ripetuta nella lettera di Kant a Lambert del 2 settembre 1770 (1), in cui il nostro autore dichiara di essere al momento occupato nella stesura di un trattato (che non venne mai pubblicato) su quell’argomento, senza fornire però ulteriori indicazioni in proposito.

    Nella Logik Blomberg (1771) e nella Logik Philippi (1772), la filosofia morale non è ricondotta sotto il titolo generale di metafisica (2). Nella Metaphysik L1 (1775-1780), la metafisica e la filosofia morale vengono chiamate le due scienze filosofiche pure (3), e nelle Lezioni di etica del 1780-1781, la filosofia viene suddivisa in filosofia teoretica e filosofia pratica (4), ma non viene fatta alcuna menzione di una metafisica dei costumi. Nelle sue lezioni Kant adotta spesso posizioni più conservatrici di quelle espresse nella sua corrispondenza privata, nelle sue osservazioni personali o nei lavori dati alle stampe.

    In una lettera a Herz, scritta verso la fine del 1773, Kant annuncia un piano dettagliato del proprio lavoro: egli ha in mente di scrivere un trattato di « filosofia trascendentale », che costituirebbe una Critica della ragion pura, e intende in seguito pubblicare una Metafisica, che verrebbe suddivisa in una Metafisica della natura e in una Metafisica dei costumi. Quest’ultima parte sarebbe la prima a vedere la luce (5).

    Verso la fine degli anni ’70, nelle sue lezioni sull'Enciclopedia filosofica (1777-1780) (6), Kant espone la sua nuova concezione dell’etica anche in classe. La filosofia pratica dovrà suddividersi, a suo parere, in: 1) filosofia pratica trascendentale, che tratta dell’uso della libertà in generale; 2) filosofia razionale pratica, ovverosia Metafisica dei costumi, che tratta del buon uso della libertà; 3) antropologia pratica (7). Non è necessario, in questa sede, prendere in esame il punto 3), dal momento che esso chiaramente non fa parte della filosofia pura (8). Quanto al punto 1), esso è facilmente identificabile con quella sezione, o aspetto, della Critica della ragion pura che tratta dei fondamenti trascendentali della moralità (9). Per conseguenza, il punto 2) corrisponde propriamente alla Metafisica dei costumi.

    È noto che nella sezione della Critica della ragion pura dedicata all'Architettonica la metafisica è suddivisa in metafisica della natura e metafisica dei costumi. Kant sentì tuttavia il bisogno di aggiungere qualche parola di spiegazione ad una denominazione tanto inconsueta:

    La metafisica della ragione speculativa, è ciò che si vuol dire in senso stretto metafisica; ma in quanto la morale pura appartiene a un ramo a parte della conoscenza umana e filosofica derivante dalla ragion pura, noi le vogliamo mantenere quella denominazione (10).

    Nei Prolegomeni (1783), tuttavia, metafisica e morale vengono menzionate separatamente (11). In una Riflessione datata da Adickes agli anni 1783-1784, la metafisica viene però suddivisa nuovamente in metafisica della natura e metafisica dei costumi (12). Nella Metaphysik Volckmann (1784-1785), Kant tratta ampiamente di questa distinzione (13).

    Nel 1785, la pubblicazione della Fondazione della metafisica dei costumi conferisce un definitivo carattere di ufficialità a questa denominazione, riferendosi con questo titolo ad una scienza che appartiene alla filosofia pura nella misura in cui questa è circoscritta a determinati oggetti dell’intelletto (14). Viene inoltre riconosciuta la necessità di una speciale Critica della ragion pura pratica (15).

    La questione è dunque, d’ora in avanti, definita. Negli anni successivi, solo dopo il 1790 la morale verrà nuovamente distinta dalla metafisica, allorché si tratterà di procedere alla suddivisione in parti di un certo concetto della filosofia in generale, chiamato « cosmo-politico » [ weltbürgerlich ], che sembra fosse sconosciuto in precedenza, e che non pare sostituirsi, ma piuttosto affiancarsi al vecchio concetto e alla vecchia suddivisione (16). L’unificazione ormai consolidata ricompare infatti nel titolo della Metafisica dei costumi, pubblicata nel 1797." (pp. 259-261)

    (1) I. Kant, Gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe (Berlin und Leipzig), X (2ed.), pp. 74, 56 e 97. Il prof. Norbert Hinske ha richiamato la mia attenzione sulla lettera del 1768, e su di un’altra lettera di Hamann a Herder, datata 16 febbraio 1767, in cui Hamann dichiara: « Kant sta lavorando ad una metafisica della morale » (J. G. Hamann, Briefwechsel, Wiesbaden, 1956, voi. II, p. 390); in un’altra lettera a Herder, del 28 agosto 1768, Hamann scrive: « La metafisica della morale di Kant mi tiene in attesa» (ibid., p. 421).

    (2) Op. cit., XXIV, 1, 1, pp. 31, 314.

    (3) Op. cit., XXVIII, 5, 1, p. 173.

    (4) I. Kant, Eine Vorlesung Kants über Ethik, hrsg. von P. Menzer, Berlin, 1924, p. 1 [cfr. I. Kant, Lezioni di etica, tr. it. di A. Guerra, Bari, 1971, p. 3].

    (5) Kant, Ges. Schr., X, p. 145.

    (6) Per l’esatta datazione, si veda la mia recensione dell’edizione delle lezioni in «Filosofia», XIII, (1962), pp. 511-514.

    (7) I. Kant, Vorlesungen über Enzyklopädie und Logik, Bd. 1, Vorlesungen über Philosophische Enzyklopädie (Berlin, 1961), p. 38. (Quest’edizione delle lezioni di Kant, benché pubblicata dall’Accademia di Berlino, non fa parte delle Gesammelte Schriften. La pubblicazione di quest’edizione è cessata dopo il vol. I). Ciò nonostante, a p. 67, morale e metafisica sembrano venir distinte.

    (8) Vedi ibid., p. 68.

    (9) È noto che Kant riconobbe la necessità di scrivere una Critica della ragion pratica solo dopo il 1781. Fino almeno al 1785, Kant riteneva che dovesse essere la Critica della ragion pura ad occuparsi della fondazione trascendentale tanto della metafisica della natura che della metafisica dei costumi.

    (10) B. 870. Cito dalla Kritik der reinen Vernunft seguendo la paginatura della seconda edizione (B) dell’opera (cfr. I. Kant, Ges. Schr., voi. III, Berlin und Leipzig, 1911). Verranno indicati gli eventuali punti in cui la seconda edizione (1787) si differenzia dalla prima (1781). [Per la trad. it. dei passi kantiani citati, rinviamo a I. Kant, Crìtica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, ed. riveduta e con glossario a cura di V. Mathieu, Bari, 1972. Nel caso presente, la citazione rinvia al voi. II, p. 636. N.d.T.].

    (11) Kant, Ges. Schr., IV, p. 363, par. 60 [cfr. I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica, trad. it. di P. Carabellese, ed. riveduta a cura di R. Assunto, Bari, 1979, pp. 132-133. N.d.T.].

    (12) Op. cit., XVIII, pp. 284-285 (Riflessione 5644).

    (13) Op. cit., XXVIII, 5, 1, p. 364. A p. 362 viene presentata una sorta di giustificazione per la presenza della metafisica nell’ambito dell’etica; tale giustificazione non può tuttavia servire ai nostri scopi, giacché in base ad essa risulterebbe che la metafisica è presente in tutte le scienze razionali, compresa la matematica (p. 363).

    (14) Op. cit., IV, p. 388. [Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it. a cura di P. Chiodi in I. Kant, Scritti morali, Torino, 1970, p. 44. N.d.T.] Kant aggiunge: « Sorge così l’idea di una duplice metafisica, della natura e dei costumi » (trad. it., op. cit., ibid.). Difficilmente però quanto precede può considerarsi una chiara dimostrazione di questa conclusione.

    (15) Loc. cit., p. 391 [I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, op. cit., trad. it., p. 47].

    (16) Nella Metaphysik L 2 del 1790-1791 (Kant, op. cit., XXVIII, 5, 2, 1, pp. 532-533) si ha la prima comparsa — databile con sicurezza — di questa dottrina. La stessa idea di una filosofia « cosmo-politica » si ritrova nella Wiener Logik del 1794-1796 (op. cit., XXIV, 1, 2, pp. 798-799), ma non c’è, in questo caso, alcuna suddivisione. Questo fatto mi fa pensare che quella sezione della Logik Jäsche che espone la medesima dottrina e presenta la medesima partizione (op. cit., IX, pp. 24-25 [trad. it. parziale in I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare, trad. e introduzione di M. Giorgiantonio, Lanciano, 1930 (1975, 2* ed.), pp. 91-93. N.d.T.], derivi dal Kollegheft del 1790, che venne usato da Jäsche, assieme ad un altro Kollegheft del 1782, per stendere il suo testo.

  10. ———. 1987. "La Critica della ragion pura di Kant nel contesto della tradizione della logica moderna." In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 285-291. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Kant’s Critique of Pure Reason Within the Tradition of Modem Logic, in « Akten des 4. Internationalen Kant-Kongresses. Mainz, 6-10 April 1974 », G. Funke, J.Kopper (Hrsg.). Kant-Studien 65, 1975, Sonderheft.

    "È evidentemente impossibile comprendere un testo correttamente, se non è chiaro ciò di cui esso parla. Se si pensa a quanto lavoro è stato sinora dedicato all’analisi della Critica della ragion pura di Kant, potrà dunque sembrare strano che non si sia ancora giunti a stabilire quale sia in definitiva l’argomento di quest’opera. Secondo una prima e più antica interpretazione, che risale all’inizio del XIX secolo e viene tuttora accettata nei paesi di lingua inglese, la Critica sarebbe un trattato di teoria della conoscenza. Secondo un’interpretazione che risale agli anni venti del nostro secolo, e deriva da Nicolai Hartmann, Max Wundt e Heinz Heimsoeth, la Critica sarebbe invece un trattato di metafisica. Secondo il mio punto di vista, l’argomento della Critica della ragion pura non può propriamente definirsi in termini di teoria della conoscenza (gnoseologia, epistemologia), e definirlo in termini di metafisica può essere corretto, ma soltanto in parte: in effetti la Critica è, a mio giudizio, un trattato tanto di logica che di metafisica." (p. 285)

    (...)

    "La Critica è in realtà un’opera di metodologia e, più esattamente, di metodologia della metafisica. E stato fatto notare che l’affermazione kantiana secondo cui « essa è un trattato del metodo » compare in effetti solo nella Prefazione alla seconda edizione (1787). Per coloro tuttavia che hanno una qualche familiarità con la terminologia del XVII e del XVIII secolo, quest’idea è già chiaramente rinvenibile in più d’un passo della prima edizione dell’opera, laddove Kant paragona la Critica alla « via regia » o alla « strada maestra » della metafisica [Weg (via), Königlicher Weg, (via regia), Heeresstrasse, Heeres-Weg (strada militare, via strategica), talvolta Fusssteig (sentiero, cammino pedonale)]: i termini « via », « strada », « strada maestra », etc. venivano tradizionalmente ed inequivocabilmente riferiti al « metodo », per evidenti ragioni etimologiche. E lo studio del metodo faceva parte della logica.

    Un’attenta lettura della Critica rivela che quest’opera costituisce una di quelle « logiche speciali » proprie delle scienze particolari che Kant contrappone, come metodologie, alla « logica generale ». Queste « logiche speciali » sono ascritte alle scienze in questione come loro parti integranti: ma nondimeno esse costituiscono le logiche speciali (o metodologie) di quelle scienze. Che Kant non chiarisse meglio questo punto può spiegarsi, da una parte, col fatto che poteva sembrargli di averlo già sufficientemente chiarito per coloro che erano in grado di comprendere il linguaggio filosofico del tempo; e, dall’altra, col fatto che egli era solito preoccuparsi ben poco di spiegare ciò che a lui sembrava essere tanto evidente. Una testimonianza decisiva in tal senso è offerta tuttavia dalla Riflessione 5644 (Akademie-Ausgabe XVIII, pp. 285-286), datata da Adickes agli anni 1784-1785, in cui si legge: « La filosofia trascendentale precede la metafisica, la quale, come la logica, non si occupa di oggetti, ma della possibilità, del contenuto e dei limiti di ogni conoscenza della ragion pura. Essa è la logica della conoscenza razionale pura [...]. La critica è quella che indaga la possibilità dell’oggetto della metafisica ». La datazione ed il carattere di questa affermazione trovano conferma in un passo di un corso di metafisica tenuto da Kant nel 1784-1785, la cosiddetta Metaphysik Volkmann, dove Kant dettò in classe, nella sezione introduttiva del corso: « La filosofia trascendentale è, in rapporto alla metafisica, ciò che la logica è in rapporto alla filosofia nel suo insieme. In relazione all’uso puro della ragione, sarà necessaria una logica speciale, che è chiamata filosofia trascendentale; in essa non si prende in considerazione alcun oggetto, ma piuttosto la nostra stessa ragione, così come avviene nella logica generale. La filosofia trascendentale potrebbe chiamarsi anche logica trascendentale ». Si dovrebbe osservare come, in questo passo, la filosofia trascendentale (o ontologia) venga identificata con la critica: è noto che Kant le identificò negli anni ’90, ma in realtà questa identificazione aveva avuto luogo assai prima — ricorrendo, in effetti, anche in qualche Riflessione anteriore al 1781. Aggiungerò che le due affermazioni sopra citate non sono in alcun modo affermazioni isolate: esse sono soltanto quelle in cui l’argomento in esame è formulato nel modo più chiaro." (pp. 287-288)

  11. ———. 1987. "Cos’è la storia della filosofia?" In Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, 295-309. Napoli: Prismi Editrice.

    Traduzione di Qu’est-ce que l’histoire de la Philosophie?, in « Revue philosophique de la France et de l’étranger », CLII, 1962, pp. 289-306.

    "Quel settore fondamentale della storia della filosofia che ha per oggetto lo studio monografico di un testo particolare sembra non tener debito conto, in generale, di alcune premesse metodologiche essenziali per la posizione dei problemi storici che ogni studioso in possesso della forma mentis dello storico dovrebbe porsi.

    È nostro intento qui esporre in modo molto succinto alcune prospettive fondamentali che dovrebbero guidare ogni analisi in questo settore. Ci limitiamo qui — vogliamo sottolinearlo — a descrivere le categorie principali di uno solo dei numerosi punti d’approccio complementari (o livelli di lavoro) seguendo i quali si potrebbe organizzare una ricerca storica di questo tipo." (p. 295)

    (...)

    (Abbiamo rilevato l’utilità e l’urgenza di elaborare una storia dell’evoluzione dello spirito consequenziale nel pensiero filosofico. Allo stesso modo bisognerebbe porsi più chiaramente il problema dell’evoluzione dello spirito letterario, dello spirito sistematico e dello spirito di comunicazione e probatorio nel pensiero filosofico. Nei filosofi i mutamenti della forma letteraria, di quella sistematica e della forma di comunicazione e di prova sono strettamente legati ai mutamenti dottrinali, cosicché non si può immaginare una storia della filosofia scientificamente concepita che non tenga conto di questi fattori. Sarebbe dunque importante elaborare delle storie speciali in cui questi elementi siano specificamente studiati in un modo più adeguato, il che permetterebbe d’avere a propria disposizione delle prospettive generali a partire dalle quali lo studio specifico dei testi verrebbe reso più facile." (p. 308)

  12. ———. 1995. "Organo, canone, disciplina, dottrina in Kant (1765-1780)." Studi Kantiani no. 8:11-30.

    "Quando Kant cerca di spiegare che cosa vuol essere la sua Critica della ragion pura, egli di solito usa due coppie di termini opposti, «canone» opposto a «organo» e «disciplina» a «dottrina»: la Critica è un canone, non un organo; è una disciplina, non una dottrina.

    Lo scopo principale di questo lavoro è di chiarire il significato di questi termini per Kant, nel suo sviluppo fino alla prima edizione della Critica della ragion pura nel 1781.

    Agli inizi degli anni Sessanta, Kant definisce ancora la logica come uno «strumento» (1) e, di essa, ha una concezione tradizionale. Nell ’Annuncio dei suoi corsi, pubblicato nel 1765, Kant distingue due tipi di logica. Il primo è una critica ed una prescrizione (Vorschrift) del senso comune (gesunden Verstandes), come una introduzione alla scienza (logica naturalis, nella terminologia delle scuole). Il secondo è una critica ed una prescrizione per la scienza vera e propria (logica artificialis), di cui costituisce l’organo, al fine di rendere regolare il procedimento (Verfahren) della scienza e di comprendere la natura della disciplina, unitamente ai mezzi usati per il suo sviluppo. L’esposizione della metafisica sarà seguita da alcune considerazioni sul metodo particolare di questa scienza, come suo organo. Questo dovrà seguire e non precedere l’esposizione della metafisica in un corso di filosofia, perché sarebbe impossibile spiegare questo organo se prima non sono stati offerti esempi della sua applicazione. Altrimenti Kant, in questo corso, esporrà soltanto il primo tipo di logica (2). I termini «disciplina» e «dottrina» vengono usati come sinonimi di «scienza» (3).

    In una lettera a Mendelssohn dell’8 aprile 1766, Kant scrive che egli considera la metafisica come una disciplina (disciplin) molto importante, ma che trova necessario toglierle le sue dogmatiche vesti, trattando le sue sedicenti dottrine in maniera scettica. Questo procedimento negativo è una preparazione per un progresso positivo in questa scienza. Un senso comune incorrotto ed ingenuo ha bisogno di un organo; ma le false dottrine di un talento pervertito (come sono quelle della metafisica) richiedono un catartico (4). Egli pensa di aver sviluppato importanti vedute volte a fissare il metodo (Verfahren) di questa disciplina della metafisica, vedute che sono non soltanto prospettive (Aussichten) generali, ma che possono essere usate praticamente (in der Anwendung) come modelli adeguati di valutazione (Richtmaas) delle dottrine metafisiche (5).

    Il significato di queste prese di posizione è chiaro per coloro che hanno familiarità con la terminologia filosofica del Settecento. Affrontare lo studio del metodo scientifico, appartiene in linea di principio alla scienza della logica, che include la metodologia. I precetti metodologici, che possono essere messi in pratica, appartengono a quella sezione della logica che si chiama «logica pratica», una sezione che viene spesso identificata con la metodologia, sicché Kant qui sottolinea semplicemente il fatto che i precetti che ha in mente costituiscono una metodologia genuina per il semplice fatto che possono essere messi in pratica. Inoltre questa metodologia non sarà un «organo», uno strumento di invenzione, volto all’acquisto di una conoscenza positiva, ma un modello di verità mirante a purificare la metafisica (come un catartico) dalle sue dottrine erronee. Essa quindi ha una funzione negativa, preliminare alla elaborazione di una metafisica genuina. In altri termini, essa è principalmente un criterio di valutazione, o, come vedremo in seguito, un «canone».

    In realtà, per alcuni anni Kant sarà indeciso nel giudicare quale sia il modo migliore per classificare questa metodologia. Come tale, essa appartiene alla logica, e sarà alla fine definita come logica. Ma, nella misura in cui è una metodologia speciale per la metafisica, può anche essere considerata come appartenente alla metafisica in quanto preparazione ad essa. Questa definizione della logica come parte della metafisica può anche essere giustificata con il significato attribuito alla metafisica da Condillac e da d’Alembert, che la identificavano con lo studio delle facoltà conoscitive della mente umana, o con la metodologia (6)."

    (1) Logik Herder, 1762-1764, AK.-Ausg. XXIV.1, p. 3.

    (2) AK.-Ausg., II, pp. 310-311.

    (3) AK.-Ausg., II, pp. 307-310, 312. «Disciplina» è già stata usata col significato di «scienza» nel 1762 (pp. 280-281), e ritornerà con lo stesso significato nel 1768 e nel 1770 (pp. 377, 410). «Dottrina» è già stata usata come «scienza» nel 1755 (I, p. 416). Vedi anche la Riflessione 1575 (XVI, p. 15,1766-1769?) e la Riflessione 1579 (XVI, p. 19, 1. 1-2, 1760-1770?). Una distinzione tra una «dottrina», una «disciplina» ed una «scienza» è introdotta nella Metaphysik Herder (1762-1764), XXVIII. 1, p. 156, ma non viene data nessuna spiegazione su di essa. Un’altra distinzione tra 1° critica, 2° disciplina come dottrina o istruzione (Unterweisung) e 3° scienza è presente nella Riflessione 626 (XV, pp. 271-272), ma la datazione di questa Riflessione è molto incerta (1762-1772?). La logica come organo è menzionata nella Riflessione 1567 (XVI, p. 7). Nella Riflessione 1579 (XVI, p. 18, 1. 28 - p. 19, 1. 4), la logica del senso comune (= logica naturale) viene definita come una critica, mentre la logica come scienza (= logica artificiale) è una dottrina. La prima è un catartico del senso comune, come la grammatica, la seconda è un organo. Ulteriori aggiunte alla stessa Riflessione, che contengono una distinzione tra dottrina e disciplina, hanno una datazione molto incerta. Esse suggeriscono che la logica intesa come disciplina è una critica, intesa come dottrina è un organo.

    (4) La nozione psicologica platonica e aristotelica di catartico sembra che sia stata poco usata nella filosofia del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Vedi anche il mio articolo ‘Critique’ and Related Terms Prior to Kant: A Historical Survey, in «Kant-Studien», LXIX, 2, 1978, § 2. Kant talvolta usava l’ortografia «catharcticon», che io trascriverò con «catharticon».

    (5) AK.-Ausg., X, pp. 70-71.

    (6) Vedi il mio articolo The Problem of the Classification of the Sciences in Kant’s Time, in «Rivista critica di storia della filosofia», XXX, 3, 1975.